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Il plico con dentro il contratto d'assunzione mi arrivò via UPS.

«Non firmare!» mi esortò Allen. Come al solito Allen sedeva in mutande su un tappetino lercio, sotto la lampada che penzolava nuda dal soffitto. Presentava un aspetto ben pasciuto, ma era eternamente affamato: come me. «Se firmi», aggiunse, «vendi l'anima al diavolo.»

Lo guardai incuriosito. La sua non poteva essere una psicosi da trip. Allen non si faceva di pillole; per quanto possa sembrare strano, lui era nato così. A meno che... «Hai bevuto?» gli chiesi.

Effettivamente, negli ultimi tempi il mio amico aveva sviluppato un'insana attrazione per i superalcolici. Ci somigliavamo anche in questo...

«Ho cannato qualcosa», rispose in maniera vaga. Dopo m'investì: «Che intenzioni hai? Cambiare fronte? Prostituirti? Entrare nei meandri di affari oscuri, pacchetti azionari di dubbia provenienza e capitali riciclati?»

«Calmati. Ho solo intenzione di lavorare, né più né meno. Qualcuno deve pur pensare all'affitto, no? Ti assicuro che si tratta di un posto comodo e pulito. Sei ore al giorno per cinque giorni alla settimana. Mi pagheranno per giocare al computer e per chattare con i colleghi.»

«La Kosmos Enterprise è un'opera di Satana!» incalzò lui. «Dietro la facciata delle attività economiche, questa multinazionale esercita un rigido controllo su tutto e tutti. Tut-ti. Anche su chi si illude di rimanere fuori dal gioco. E, scientemente, influisce sul nostro rapporto con la gente e con il potere. Intanto, nel caso tu non te ne fossi accorto, ha già ridefinito i concetti di proprietà privata, ricchezza, povertà... oltre ai principi morali.»

«Beh, allora possiede poteri divini!» dissi ridendo. «Ma tu che puoi saperne, amigo?»

Allen sollevò il suo triplo mento, accennando al laptop. «Lo so, invece. Monitorizzo la realtà, io: tramite la Rete e alcuni contatti. Contatti in carne e telematici.» E soggiunse: «Avrei preferito apprendere che lavi i cessi del MacDonald's anziché essere un dipendente della Kosmos! Anche se, in fondo, è tutta un'unica organizzazione, ormai. Ma non ti chiedi come mai hanno preso te, te che sei un picchio di nessuno?»

«Forse apprezzano le mie qualità...»

«Attento, Pat. Attento, ragazzo mio. Con quelli non si scherza! Sono nati prima di noi.»

«Quelli? Hanno dunque un'identità precisa? E chi sarebbero, secondo te?»

Anziché rispondermi subito, Allen si accese la pipa, con i gesti ponderati che sempre accompagnavano quel rito. Emise un paio di sbuffi prima di riprendere a parlare. «Alla guida della K.E. ci sono alcuni vecchi hacker. Dopo essere stati assunti, e dunque risucchiati dal sistema, questi ex ribelli ed ex fricchettoni sono diventati dei cybersauri. Persino le strutture inferiori... il sottopalco, per così dire... sono sostenute da rivoluzionari della prima ora che hanno scelto di stare al gioco: gente che una volta era come noi e che oggi si gongola nel nuovo ruolo. Traditori che si sono venduti in cambio di automobili veloci, ville con giardinieri e ferie ai tropici.»

La luce se ne andò, ma si riaccese subito. Un fenomeno naturale, nei nostri fetidi bassifondi.

Scossi piano la testa. Auto veloci, vacanze ai tropici... ma non è quello che desiderano tutti? Allen litigava sempre con mezzo mondo. Purtroppo per lui, però, era il mezzo mondo ad avere ragione.

Impugnai la biro, dicendo: «La tua è una lotta controvento, amigo. Mettiti in testa che gli anni Settanta non torneranno più. È vero, quello fu un periodo speciale, in cui anche i loser e i solitari si muovevano come se fossero i protagonisti di un film. Ma ormai viviamo nel Terzo Millennio». E, detto ciò, scrissi il mio nome in calce al contratto: Patrizio Ferroni. Con tanto di svolazzi.

  Entrai nella mensa con passo deciso. Dietro al banco c'erano alcune servitrici con cresta e grembulino bianco che si preoccuparono di caricarmi il vassoio di vivande: farfalle allo zafferano con gamberetti, beefsteak e torta alla crema e pinoli. Cercando con lo sguardo una sedia vuota, notai con stupore che qualcuno mi faceva dei cenni: un tizio con la chioma selvaggia e il pizzetto da moschettiere. Mi appressai al suo tavolo; era occupato da un campionario di quelli che si potrebbero definire "maturi teen-ager". Mentre ancora appoggiavo il vassoio sul ripiano di formica, cominciarono a presentarsi: Adriano, Enrico, Anna, Celestina... E i loro cognomi! Niente di più banale: Vasapolli, Pagnotti, Mantovan... Per fortuna, tra di loro usavano solo i nomignoli: Pussyboy, Fool, Johnny Blue, Colgate... Quest'ultimo apparteneva a una ragazza tuttacurve alla quale sorrisi estasiato.

«Salve, Patrizio!» esordì Colgate, come se fossimo amici di vecchia data. «Superato il momento difficile?»

Arrossii. Come facevano a...? In effetti, mi sentivo insicuro; anzi: diciamo pure che l'angoscia mi divorava. Non riuscivo a capacitarmi che la K.E. mi avesse accettato e temevo che da un momento all'altro qualcuno si accorgesse dell'errore e mi scaraventasse fuori. Boccheggiai in preda all'imbarazzo, ma i presenti si affrettarono a rassicurarmi: «All'inizio è stato lo stesso anche per noi. Io per esempio, dopo essere stato assunto», mi disse Pussyboy, ovvero il tizio col pizzetto, «ho sofferto di cefalea di tensione, crampi addominali e così via».

«A chi lo dici!» intervenne Protia, una ragazza con il viso incorniciato da un caschetto di capelli neri e con qualche problema di girovita. «In me, l'ansia di sapermi una novellina si è manifestata con difficoltà a prendere sonno e forte tendenza all'ipocondria.»

«E questo perché ignoravamo in che cosa consistessero le nostre mansioni», concluse Colgate.

La guardai. Aveva un corpo impeccabile e gli occhi velati da un leggero make-up. «E ora invece lo sapete?» inquisii.

«Più o meno. Ma presto lo saprai anche tu.»

«Già», disse un altro tizio, alto e dinoccolato e con tracce di barba mal rasata. «Grazie ad Aleph.»

«Aleph? E chi è?»

«Il computer centrale», rispose Fool (cravatta infallibilmente perpendicolare e jeans comprati al Sisley).

Colgate mi sorrise. «Aleph. Hai colto l'allusione letteraria? Secondo Borges, Aleph è il punto "dove si raccolgono senza confondersi tutti i luoghi della terra".»

Lanciai un'occhiata circolare. E così, anche loro erano dei pivelli. Mi era parso infatti che fossero un po' strambi, e certamente inadatti a un lavoro di rilievo presso una company come la Kosmos. Ma la mensa sembrava pullulare di gente simile: tardo-yuppies che indossavano abiti "vintage" ed esibivano capigliature strane o altre particolarità stonate. Individuai Marilinda a un tavolo in fondo; notai che si era tinta le unghie dei piedi a tutti i colori, in neon. Beh, d'altronde cos'altro poteva fare per tutto il santo giorno la segretaria di un "capo" come me?

«Prima di entrare qui», ricominciò Colgate, «eravamo quel che comunemente si dice dei "falliti al cubo". Prendi me. Bighellonavo per tutte le orge della città...»

«Io, invece, ero presente a ogni festa technorock», spiegò Fool.

«Mentre io non facevo un bel nulla», ammise candidamente Protia, la mora.

«Io idem», dichiarò Pussyboy. «Ero il classico segaiolo. Ma mi ha salvato la K.E. Accadde in una lontana estate calda densa di umori, di provocazioni femminili, di mutande stese al sole...»

La sua teatralità suscitò qualche risatina.

«E tu?» domandai al dinoccolato.

Quello mi rivolse un'occhiata stanca prima di decidersi a sbottonarsi: «Insegnavo alle medie. Matematica».

Lo guardammo tutti con aria di commiserazione.

«Henry è, a conti fatti, il più qualificato di noi», osservò Colgate.

«E anche quello dal passato più squallido», commentò lo stesso Henry.

«Ma allora», insistei, «se la nostra matrice comune è quella dei perdenti, perché ci troviamo qui?»

Fu Johnny Blue a rispondermi: «Fungiamo da materiale di sperimentazione».

Sussultai. «In che senso?»

«Siamo cavie, più o meno. Attraverso noi viene misurato l'eventuale grado di resistenza nelle Paludi del Non-Tempo.»

Dopo una pausa relativamente lunga, confessai di non aver capito un tubo.

«Capiremo meglio, tutti quanti, quando passeremo alla Fase Due. Per te significa un'attesa di... vediamo... di circa tre anni.»

«La Fase Due di che cosa? Dell'esperimento?»

«Sì», rispose Henry. «Ma Aleph lo chiama in un altro modo. La denominazione ufficiale è: Codice Untergang.»

Scossi la testa, esausto ed esasperato, e ingollai dell'aranciata. Uhm. Proprio buona. C'era la polpa e tutto. Sembrava vera.

Colgate mi sfiorò il braccio. «Sta' a sentire, Patrizio-baby: alla K.E. appartiene praticamente ogni cosa. Tutto quel che vedi, in qualsiasi parte del mondo, è proprietà esclusiva della ditta.»

«Eccetto forse i distributori di preservativi in Africa», gettò là Fool.

«No», lo contraddisse Colgate. «Anche quelli. Quando si dice "mondo", si intende il mercato globale. La K.E. si occupa di cose grandi e piccole; di transgenetica come di gomme da masticare. E del tempo.»

«Del nostro», dissi.

«Di quello di tutti. Del tempo in generale.»

«E, per riflesso, anche della storia», intervenne Henry. Che proseguì: «Lo scopo del progetto Untergang è quello di procrastinare il futuro. La fisica moderna ci insegna che ogni cosa sottostà all'irrefragabile legge del tempo irreversibile. Ebbene: Aleph, il computer centrale, ha varato un programma che tende ad accelerare il corso degli eventi... con un contemporaneo rallentamento del progresso. A proprio vantaggio, chiaro: così lui - Aleph - può inseguire il sogno dell'immortalità. Ma ciò va anche a vantaggio del genere umano.»

«E rallentare il progresso tu lo definisci un vantaggio?» domandai nervosamente. «No, smettetela! Mi state prendendo in giro. Cavie, Codice Untergang, gomme da masticare, preservativi... Non ci credete neppure voi. Sebbene...»

All'improvviso pensai al mio amico Allen ed ebbi come una visione.

«Ma certo!» proruppi. «La Kosmos Enterprise si è comprata il mondo... l'universo... per poter stabilire il corso della storia! Comincio ad afferrare. Il vero potere non è conferito dall'accumulo di capitali, ma dal controllo sul divenire. La parola d'ordine è: no future. Già trent'anni fa William Burroughs domandava: "Dove accidenti sono gli elicotteri individuali che ci avevano promesso?" E anch'io, da bambino, credevo che nel Duemila avrei preso la metropolitana a Mosca per poter sbucare mezz'ora dopo in una strada di Manhattan. Invece... Abbiamo oltrepassato la soglia del Millennio e non abbiamo ancora il governo mondiale, non abbiamo né città su Marte né colonie sottomarine, e nemmeno automi che ci stirano le camicie o apparecchi di teleportazione. Abbiamo però i cloni, il genoma, l'intelligenza artificiale, i nanorobot: tutti fenomeni invisibili. Il domani è microcosmico. E presto lo sarà anche il presente. Noi umani siamo bestie troppo grosse: perciò, qualcos'altro dovrà nascere al posto nostro.»

I miei commensali si erano già alzati. Esibivano un'aria impacciata. «Vieni, Pat», mi disse Colgate, sfiorandomi una spalla. «È ora di rientrare.»



		   

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