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Uscii alla chetichella dalla mia gabbia. Che giorno era? Che mese? Dentro quell'edificio, la ciclicità delle stagioni perdeva ogni senso. La zona da perlustrare era troppo vasta e nascondeva troppi trabocchetti: telecamere nascoste, guardiani che pattugliavano i vari livelli... Nel vedermi cacciare il naso fuori dal mio bugigattolo pieno di diversivi, Marilinda non palesò alcuna sorpresa. Ma non avevo ancora raggiunto il corridoio che la vidi afferrare il telefono. Per avvertire chi?

Feci il giro del mio piano - il 14° - senza intoppi di sorta. In sottofondo si spandeva una musica-giocattolo. Le porte degli uffici erano tutte uguali e protette da una chiusura elettronica. Bussai qua e là, a casaccio; ma senza esito.

Ero consapevole di stare giocando un gioco pericoloso. Ovvio: la verità è sempre stata sotto gli occhi di tutti, ma chi si azzarda a farne menzione mette a repentaglio la propria vita.

Fondamentalmente, il progetto varato da Aleph rispecchia quello di Dio. Sulla Terra non c'è mai stato ordine, mai unità: solo amara separazione, fin dall'inizio. E questa separazione fu decisa da un Creatore che, sicuro nella propria compiutezza, ha innalzato a Legge Suprema la necessità del mangiare o essere mangiato, per trastullarsi dopo con la commedia delle nostre sofferenze.

Povero Allen! Aveva ficcanasato troppo e per questo la K.E. lo aveva sbranato: gnam! Io che potevo fare? Mi seccava dovermi scervellare da bestia per risposte che non trovavo e che nessuno mi avrebbe mai dato. A guidarmi era solo il dolore per la tragedia toccata al mio amico.

Mi diressi all'ascensore e premetti il "25".

Quel era un livello sorvegliatissimo, ma Mister Info - come lo chiamavano - stava già aspettandomi. La sua segretaria-meretrice mi introdusse nel leggendario sancta sanctorum.
Info era un leader nato: iperattivo, sempre in movimento... Anche adesso, mentre mi faceva accomodare, appariva irrequieto, si muoveva a scatti. Sulla vasta scrivania c'erano alcune siringhe: doveva farsi di continuo punture sulle dita per tenere sotto controllo il tasso del sangue e scongiurare così crisi ipoglicemiche.

«Allora, signor Ferroni?»

«Una domanda sola», esordii. «Perché?»

«Domanda lecita», replicò lui, «anche se vaga e poco intelligente. In questa maniera, lei avrà solo grane e non concluderà nulla.» Si infilò l'ago nel polpastrello, poi si leccò la stilla di sangue. «So quel che si dice della nostra ditta: il buco d'ozono... l'afta... la mucca pazza... No, noi non c'entriamo! Non creda ai luoghi comuni, signor Ferroni!»

Iniziò a illustrarmi le iniziative pro-ambiente della K.E.-Europa. Lui, Info, della K.E.-Europa poteva considerarsi un capintesta. «Le sarà noto che siamo impegnati in svariate campagne umanitarie...» Con me si atteggiava a individuo onesto e accomodante, ma lo tradiva lo sguardo inquieto, sfuggente. A sentirlo parlare, la carne agli ormoni, la polvere radioattiva, il kipple proliferante e la pioggia acida che invadevano il nostro continente - da Lisbona a Vladivostock - non erano affatto opera della Kosmos Enterprise.

Svogliatamente, gettai un'occhiata a un diploma che faceva bella mostra di sé su una parete: un riconoscimento per i suoi buoni uffici nel combattere comunisti ed ebrei.

Di nuovo ripensai ad Allen. Il mio povero amico aveva sostenuto che l'"organizzazione" non si arrestava mai di fronte a nulla. Ai piani alti della Kosmos, frodi, malversazioni e appropriazioni indebite erano considerate quisquilie, e l'assassinio poco più che uno scherzetto.

«Il suo ruolo qui», sentii dire Mister Info, «è quello di crescere insieme a noi. Si attenga alle norme, come fanno i suoi fellows, e vedrà che soddisfazioni.»

Avrei voluto vomitargli in faccia l'opinione che avevo su di lui e sulle sue norme, rovesciargli la scrivania addosso... ma non feci niente di tutto ciò. D'un tratto scoprivo di essere un pavido, un coniglio di merda, incapace di affrontare qualunque faccenda se solo questa scottava un po'.

"Riconosci te stesso", ammonisce il filosofo.

"Troppo tardi!" esclama il buffone.

Mi alzai, salutai e tornai in gabbia, dove copulai più volte con la bambola di silicone nel tentativo - purtroppo vano - di scaricare la tensione nervosa.

Il suono della campanella, ore 15: PANICO, angoscia, orrore. Quando mi accinsi a tornarmene a casa, Marilinda mi rivolse uno strano sorriso. Aveva capito. Sapeva. Avevo forse una macchia di sperma sui calzoni? No: il mio volto era un libro aperto. Le era chiaro che stavo contraendo attitudini balorde.

Montai sulla mia Mercedes-BMW Classe B nuova di zecca e attraversai questa nostra città logora e logorante, ascoltando musica a parecchi decibel; ma neanche i suoni a me cari riuscirono a scrollarmi di dosso il terrore dell'azienda-mostro per cui lavoravo.
Mentre ero bloccato nell'ingorgo, vidi una mountain bike serpeggiare tra le automobili. Il giovane che la cavalcava portava a tracollo una borsa piena di documenti. Aveva sul colletto il simbolo della Kosmos Enterprise e un riso maniaco stampato sul volto.

L'Aloha Club era esattamente come me l'ero immaginato. Di locali del genere ne esistono a bizzeffe, solo che quello era destinato ai soli dipendenti della Kosmos Enterprise. Mi identificai con il tesserino magnetico della ditta e feci il mio ingresso nella sala principale. La band Nuclear Yacc la stava menando della brutta.

Al bar c'erano i soliti colleghi, che parlavano delle solite cose. Si ravvivarono nel vedermi, ma io mi chiusi irrevocabilmente in me stesso. Preferivo bere da solo e brindare alla memoria di Allen. Lo avevano trucidato senza pietà, come si fa con un essere reietto...


A un certo punto sentii una mano posarsi sulla mia spalla.


«Che pensi, Patrizio-Baby?» Era Colgate.


«Nulla.»


«Non parli, te ne stai zittozitto...»


La guardai; li guardai. Chi era meglio: Allen o quei miei colleghi che, per amore dei soldi (e del senso di potenza) avevano finito con il capitolare davanti al sistema e, una volta entrati nella ditta, si erano automaticamente ritrovati a far parte del club noli me tangere?


«Non vedo Pussyboy», dissi. «Dov'è?»


«Nessuno di noi sa dove sia andato. È sparito da giorni. Cominciamo a stare in pensiero...»


Pagai e uscii. Subito mi accorsi di essere seguito da una civetta della polizia. La macchina era senza insegne. Credo che in certi romanzi gialli e pellicole di serie B si dica "pedinato". Volevano scoprire qualcosa sul mio conto, ma io non avevo niente da nascondere.


Oppure sì?


A casa esplorai la Rete in cerca di articoli su Mister Info e su altri miei superiori. Il risultato fu: CAOS. Il Web è un groviglio inestricabile. Cercare tracce rivelatrici in vecchi numeri di giornali e riviste cartacee era, al confronto, una bazzecola. Ad ogni modo, riuscii finalmente a imbattermi in un sito finlandese in cui c'era un'intervista rilasciata da Info sull'effetto serra e su altri problemi ecologici. In quell'intervista, il mio capo dichiarava: "Se l'Alaska, le Galapagos e la Normandia ancora esistono, è grazie all'oculata politica ambientale della K.E."


Tutte le altre sue sparate erano più o meno del medesimo tenore.


Intanto era scesa la sera. Decisi di fare due passi a piedi, ma fu un errore: non sopportavo più la fauna umana che girava per il centro... mi veniva voglia di fare una strage! Senza accorgermene, mi ritrovai in un quartiere come quello in cui ero nato e cresciuto: una discarica sociale. Dovevo camminare a zigzag per evitare merds di uomini e bestie. All'interno di minuscole e ombrose botteghe, figure malmesse producevano con solerzia sostanze psicoattive. Ora sapevo per chi.


«Ti do un consiglio», mi aveva detto un giorno Colgate. «Se vuoi stare bene, limitati a pensare al guadagno, ai soldi che percepisci semplicemente rimanendo in ditta. Aleph, che ha decretato la nostra assunzione... la nostra, bada bene, e non quella di altri: quindi, in noi un lato positivo deve pur esserci... Aleph ha stabilito che l'unità di misura della nostra presenza-lavoro è l'Ich-Zeit. Ai manager dei piani alti spetta poi il compito di convogliarlo in Tempo-Macchina...»


«E in denaro», si era intromesso Fool. «Alla K.E. si va in pensione a 45 anni. E alla fine ci becchiamo pure il premio-fedeltà: appartamenti, residence o ville.»


«Già», dissi io. «Ma fino ad allora che cosa facciamo? Voglio dire: avendo così tanto tempo a disposizione?»


«Facciamo come i disoccupati: ci piazziamo davanti alla tele e ci succhiamo tutti i programmi con la cannuccia.»


Mentre ritornavo a Memotown, due giapponesi mi transitarono accanto. Uno disse all'altro: «Yashika», o qualcosa del genere. E risero. La loro risata doveva avere una particolare frequenza, poiché mi si incollò alle pareti interne del cranio, dove ancora risuonava un'ora più tardi, allorché, nuovamente incollato al monitor, cominciai a mandare e-mails a svariati colleghi.





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