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Mi risposero Colgate, Devyana (un'asiatica molto sensuale che lavorava all'Area Slogan & Acronimi) e Jamil. Ovvero le uniche persone che in ditta ancora mi rivolgevano la parola. Il resto della mandria mi evitava come la peste, sia in mensa sia fuori. Non volevano sapere un bel niente: persino dopo l'orario d'ufficio si muovevano meccanicamente, occupandosi soltanto delle questioni del Tutti-i-Giorni.

Con Henry ci fu un breve scambio di messaggi:

"Caro Henry, sarai sorpreso di ricevere la presente. Io uso Arial 12, tu forse risponderai con Times New Roman. Si tratta della K.E...."

"Hi, Pat. Incidentalmente il mio vero nome non è Henry. Sono un reporter e anch'io sto facendo delle ricerche sulla company: per conto del mio giornale. Ci troviamo in piena combat-area, perciò il mio prossimo msg ti arriverà crittografato, sperando che tu sappia venirne a capo..."

Dopo di che, silenzio assoluto. E non lo vidi nemmeno più.


«Dove accidenti è finito Henry?» chiedevo.


«Mah», mi replicavano. «Si sarà imbucato da qualche parte, forse in trasferta... Nemmeno Pussyboy si è rifatto vivo.»

Reperirono il cadavere di Henry sulla scogliera. Presentava escoriazioni e contusioni multiple, le rotule fracassate, fratture alle falangi e alle metatarsiche. I tratti erano irriconoscibili.


Ma fu soprattutto la morte di Colgate a provocare in me una crisi dissociativa.


«Si è accoppata», mi dissero.


«Si è stesa? Da sé?»


«Già.»


Come crederci? Colgate era il ritratto sputato della gioia... Vagai per le strade come un maniaco deambulatorio. Vento e nuvole si attorcigliavano attorno ai grattacieli. Nella marea di gente (impiegati, manovali, turisti) affioravano volti arcaici. I registratori di cassa di cyberbar e altre bettole lavoravano a tutto spiano: per la K.E. Nell'asfalto si aprivano qua e là crepe che inghiottivano il carname.


Camminai fino a notte fonda con, nelle narici, un sentore folle di fiori vivi. Da dietro le finestre, i bravi cittadini assistevano "live" al mio dramma personale; perché ero un'ombra, sì, ma per lo Stato e la Chiesa (e per la Kosmos Enterprise!) continuavo ad avere un'identità precisa con un preciso nome: Pat Ferroni. Sulla schiena mi avevano dipinto un bersaglio fosforescente...


Decisi di chiamare Jamil, anche se era tardissimo. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, trovai una cabina telefonica funzionante e digitai il suo numero.


«Abu Cahal», gracchiò la sua voce.


«Salve. Qui è il fellow P... beh, il mio nome non ha importanza. Volevo...»


«Questa è la mia segreteria telefonica. Sono andato a svernare in Marocco. Lasciate il vostro messaggio dopo il...»


Beep!


Lasciai cadere la cornetta e mi incamminai verso Colleverde. Passai attraverso corridoi formati da asettiche catacombe bianche che si differenziavano solo per i caratteri alfanumerici che le contrassegnavano. Un paesaggio da videogame. Mi fermai davanti all'imponente sede della K.E.: una caverna supertecnicizzata in cui si rifugiava l'Uomo di Cro-Magnon. Spacciandosi per un ventre materno accogliente e protettivo, la K.E. infondeva l'idea che il pericolo reale fosse fuori, nei recessi selvaggi e ancora inesplorati, là dove i suoi tentacoli non arrivavano.


Ma c'erano veramente angoli in cui non arrivavano?


«Forse sì», aveva ipotizzato una volta Pussyboy. «Alla periferia delle periferie. In villaggi nella giungla, lontano dal controllo dell'apparato substatale...»


All'alba mi precipitai a casa per fare le valigie, ma li trovai lì ad aspettarmi.


Erano in quattro. Mi afferrarono e mi sollevarono come una piuma, e io chiusi gli occhi. Una strana immagine mi attraversò la mente. "Vedevo" Allen assiso sul fondo dell'oceano davanti al suo laptop, a leggere i segni del mondo e a lanciare messaggi trasgressivi. Ai suoi lati erano Colgate, Pussyboy e Henry, che gli facevano da assistenti. Probabilmente li avrei raggiunti presto in quell'abissale Nirvana...


I molossi tritarono la ghiaia del vialetto; poi mi scagliarono dentro una station wagon che partì a tutta birra. Dove mi portavano? Da quando mi trovavo alla Kosmos Enterprise ero passato per tanti corridoi e per un sacco di zone differenti. Transits: passaggi intercomunicanti che univano un livello con il successivo, una condizione di vita con l'altra...


I miei truci accompagnatori non aprivano bocca. Provai ad interpellarli, ma lo spaccaossa che sedeva accanto al conducente si girò e mi ingiunse di stare zitto. Inforcava occhiali scuri marca "Untergang".


  

 

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