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Mi inocularono una sostanza nella nuca, poi mi trascinarono in un'ampia sala, dove mi costrinsero a mettermi a cavalcioni di una bicicletta senza ruote. L'ambiente era in penombra: potevo riconoscere un'infinità di spalle ondeggianti e il lampeggiare di una spia di controllo sul manubrio di ciascuna delle cyclette. Mi ordinarono di premere sui pedali. Ubbidii controvoglia, mentre un venticello artificiale mi spettinava le sinapsi. Su un enorme schermo scorreva il film di una strada di campagna. Tutt'attorno c'era il sibilo delle dinamo, come un ronzio di mosche ubriache: gli altri prigionieri pedalavano con foga, molti magri fino all'osso, tutti con lo sguardo fisso sulla strada in panavision.

I mastini che mi avevano condotto fin lì si allontanarono. Ne approfittai per rivolgermi a un vicino di fila. «Ehilà, amigo!» lo chiamai. Ma lui non mi diede retta. Il ronzare dei meccanismi era fortissimo, impossibile capirsi. Vidi che aveva gli occhi sbarrati, in preda a un'estasi chimico-motoria. Pian piano la droga fece effetto anche su di me. Nel mio cervello una voce iniziò il countdown: FIVE-FOUR-THREE... TWO... ONE... Dapprima ci fu un lampo perfettamente bianco, come di lampada al magnesio; seguirono diversi sismi cerebrali e il sussulto dei muscoli delle gambe. Mi aggrappai al manubrio, concentrandomi sullo schermo. Ben presto la bici si trasformò in un razzo.

Pedalavo e ghignavo. Correre, correre... Il fine era la via stessa. Ogni tanto un tubo di gomma si calava dal soffitto, consentendomi di succhiare una pappa viscida ma nutriente. Evidentemente i sensori che mi avevano applicato agli arti e al petto registravano il livello delle riserve noradrenaliniche...


	

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